Nella scorsa puntata ho parlato de Lo splendore di Pier Paolo Di Mino, che promette ma non mantiene. Se siete nuovi qui, ecco una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che trovi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. E infine, se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere le prossime uscite di questa newsletter nella tua casella di posta cliccando qui.
Di recente ho pubblicato, insieme all’amico Michel, un saggio che si chiama Storie false. Lo trovate qui sul sito dell’editore o negli altri luoghi dove si vendono libri.

Qualche sera fa parlavo con l’amica Giulia della sua ricerca di un libro da leggere sulla storia italiana recente. In effetti quella che non si studia a scuola è la storia più vicina a noi e ha un legame più diretto sul mondo in cui viviamo, anche se, un po’ per paradosso, la sua conoscenza è lasciata a quanto si apprende in famiglia e alla curiosità personale. Tanto per tornare a eventi citati più volte qui, sugli Anni di piombo (vicende iniziate oltre mezzo secolo fa) chi è appena uscito dalla scuola superiore è facile che sappia poco o nulla, e se non sceglierà percorsi formativi molto specifici magari non li studierà davvero mai.
Di recente ho letto Postwar (“Dopoguerra”, anche se mi pare che diverse edizioni italiane mantengano il titolo inglese), una celebre storia dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale dello storico britannico Tony Judt (ed. or. 2005, pubblicato in Italia da Laterza, 1088 pp.). Il libro ricostruisce le vicende europee dal 1945 al 2005 ed è proprio il consiglio adatto a chi sente di avere qualche curiosità in merito. Si parla tanto dell’Europa occidentale quanto del blocco sovietico: farlo in un solo volume è certo un progetto straordinariamente ambizioso e il libro di Judt ci è riuscito tanto bene da essere diventato una specie di classico istantaneo.
Postwar rese infatti l’autore famoso soprattutto negli Stati Uniti, dove insegnò nell’ultima parte della sua carriera. Ne seguirono altri libri notevoli, in particolare Ill fares the land (ed. or. 2010, trad. it. Guasto è il mondo, Laterza, 188 pp.). Qui Judt faceva il punto su che cosa, a suo dire, stava andando male nelle democrazie occidentali, mettendo ai primi posti le disparità economiche e l’erosione dello stato sociale come immaginato nel secondo dopoguerra. È un libro che precede di qualche anno Thomas Piketty e il suo Capitale nel XXI secolo e che colpisce per quanto sia anticipatore delle tendenze del dibattito pubblico globale che sarebbe arrivato di lì a poco, anche in conseguenza della grande crisi economica. Ne emerge bene la prospettiva politica (socialdemocratica) di Judt. Ma lo storico morì a soli 62 anni, nel 2010, ormai riconosciuto nel mondo anglosassone come un intellettuale di grande importanza.
Anche in Postwar, come in Guasto è il mondo, non si risparmiano le opinioni. Non tanto i giudizi politici su questo o quel governo, quanto le opinioni informate sui diversi movimenti culturali che hanno caratterizzato la storia recente europea. Alle vicende politiche dell’Ungheria o industriali del Regno Unito si accompagnano pagine notevoli sulla filosofia, la moda, il cinema. Come se non ne avesse abbastanza con i grandi eventi della storia, Judt trova lo spazio anche di tracciare una sorta di guida di orientamento anche al percorso culturale del continente.
Non siamo nell’epoca delle grandi sintesi, specie in ambito accademico, in cui si tendono a privilegiare studi di scopo ridotto e iperspecialistico. Certo si continuano a scrivere e pubblicare numerosi saggi con una prospettiva ampia e in grado di spaziare tra le epoche e le geografie, ma se si guarda alle tendenze generali la prospettiva più comune è piuttosto verso lo studio di esperienze circoscritte, a volte molto circoscritte. Opere come quelle di Judt non sono eccezioni assolute, ma sono comunque abbastanza poco frequenti.
Credo sia l’influenza, da un lato, della crescita quantitativa degli studi umanistici: l’impressione che su quasi ogni argomento esista già una bibliografia sterminata, da padroneggiare prima di aggiungere qualche cosa di nuovo. Dall’altro ha il suo peso anche il successo straordinario dei movimenti intellettuali – in particolare in campo storico – che dagli anni Settanta in poi hanno scelto di concentrarsi su vicende e ambienti molto circoscritti e trarre semmai da quelli conclusioni più generali. Ma la tendenza verso il “micro” è evidente anche negli studi letterari e filosofici.
Postwar è straordinario per la sicurezza con cui Judt si muove tra dati economici, vicissitudini politiche, tendenze culturali. Nei casi in cui parla di argomenti più familiari a un lettore italiano, come (di nuovo) gli Anni di piombo o la Democrazia cristiana, torna in mente il famoso detto di Einstein (in realtà una parafrasi di una frase meno perfetta) secondo cui tutto deve essere reso il più semplice possibile, ma non più semplice di così. Si possono trovare limiti nella rappresentazione di Judt del terrorismo italiano, per esempio, che quasi non menziona il ruolo dell’estremismo di destra, ma in questo come in molti altri casi l’impressione è che Judt abbia colto le linee essenziali delle vicende del nostro Paese.
Un’opera impressionante, allora, sostenuta da decenni di letture e da una bibliografia molto vasta (quella al termine del libro è di una quarantina di pagine). In larga parte in inglese, anche se curiosamente l’autore fa un discreto uso di espressioni in italiano, da intellettuale cosmopolita ed “europeo” qual era: e altrettanto curiosamente sbaglia la grafia delle parole nella nostra lingua con discreta frequenza (per fare solo un esempio: qui vive per chi vive, p. 505). forse come segno rassicurante che anche Judt era fallibile, che errare è davvero umano.
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Lo sto leggendo. Veramente molto interessante