Nella scorsa puntata ho parlato del problema delle recensioni. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Ho articolate opinioni su molti libri che non ho letto. Molte peraltro sono opinioni negative e non ho paura di ammettere che riguardano autori famosissimi, da milioni di copie vendute. Che so, Dan Brown, oppure le sfumature colorate, o persino qualche scrittore e scrittrice che tengono banco sulle pagine dei giornali italiani.
Verso quei libri ho solidi e radicati pregiudizi. Sono tempi duri per i pregiudizi, ma la dura verità è che siamo pieni di pregiudizi che non si possono eliminare, i pregiudizi sono una bussola necessaria per navigare questo mondo pieno di cose che non sappiamo e situazioni che non abbiamo mai affrontato. E di libri che non leggeremo mai.
Vorrei quindi difendere la mia pratica poco rigorosa e parziale. Sgombriamo il campo, intanto, dalla trita obiezione che per parlare di qualcosa sia necessario saperla fare. Spesso avanzata dalle persone pratiche, che hanno poco tempo da perdere in filosofie: è però una critica spuntata per almeno due motivi.
La prima è che leggere è un’attività ben differente dallo scrivere e niente affatto più semplice né meno tecnica. Anche la lettura ha un lungo periodo di apprendimento, strumenti specifici ed expertise da conquistare, tanto che si può essere ben versati nella lettura ma del tutto incapaci di scrivere un racconto o un romanzo. La seconda è che la pubblicazione di un libro è un’attività rivolta, appunto, al pubblico, per cui una valutazione esterna dei risultati è naturale. Come il commento di una partita di calcio è possibile da parte di tutti gli spettatori, anche se non hanno mai militato in Serie A, il lettore ha tutto il diritto di criticare Fabio Volo o Philip Roth anche se non ha mai scritto un romanzo di trecento pagine.
Spingiamoci dunque un poco oltre. È legittimo criticare anche i libri che non si sono letti e qui, facendo grave offesa al metodo scientifico – ma l’idea che le discipline umanistiche siano “scienze” non è che un’aberrazione del tecnicismo contemporaneo – mi richiamerò al principio di autorità.
Qualche anno fa il mio amico Dario mi fece scoprire un saggio di Oscar Wilde, Il critico come artista (1891) che argomenta in modo convincente come basti assai poco, al lettore esperto, per farsi un’idea di un libro.
Per conoscere l’annata e la qualità di un vino non c’è bisogno di bere tutta la botte. Dev’essere perfettamente facile dire in mezz’ora se un libro vale qualcosa o non vale nulla. Dieci minuti sono sufficienti, in realtà, se si ha l’istinto per la forma. Chi vuole andare avanti a stento per un intero libro noioso?
Seguace più o meno consapevole della dottrina wildiana, qualche anno fa Guido Vitiello aveva una rubrica molto divertente su Internazionale, chiamata “Pagina 69”, in cui recensiva un libro leggendone soltanto una pagina (ne ritrovo online solo quattro puntate, ma non ricordo se uscirono solo queste). Idea brillante come la sua realizzazione: le recensioni erano ineccepibili, a patto di scegliere i libri giusti.
Viviamo in un’epoca più prosaica di quella di Wilde, e ci accontenteremo di tradurre quell’«istinto per la forma» (the instinct for form) in «essere lettori esperti». Data quella qualità, insomma, bastano pochi minuti. Propongo però un approccio ancora più radicale, un pregiudizio ancora più estremo: si può e si deve parlare di libri che non si sono neppure aperti. Dovrebbe bastare una quarta di copertina, un’intervista con l’autore, una trama orecchiata in spiaggia.
Commenti? Idee? Suggerimenti? Puoi scrivermi rispondendo a questa email.
Concordo completamente.
Giunto a 61 anni, 56 dei quali passati a leggere molto, mi vanto di poter giudicare con buona approssimazione un libro sconosciuto aprendo tre pagine a caso e leggendo una frase da ognuna di esse.
Mi sbaglio raramente.