Nella scorsa puntata ho elencato i miei dieci libri del 2022. Bentornati ai vecchi e benvenuti ai nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato, cliccando qui.
Devo la scoperta de Il quinto evangelio di Mario Pomilio al più volte citato amico Dario. Come non essergli grato: un romanzo importante, tra i migliori, a mio modesto avviso, della letteratura nostrana del secolo scorso. Il suo spunto di partenza è semplice. Pomilio immagina che, in semisconosciuti documenti e in dimenticate opere devozionali, siano sparse tracce di un quinto vangelo, come scopre per caso il protagonista, un ufficiale statunitense di stanza in Germania subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che fa della ricerca di quel testo una ragione di vita.
Il libro è una ricostruzione di quella ricerca e soprattutto di quelle tracce in ordine cronologico, dalla tarda antichità e arrivando ai giorni nostri: un capitolo è la raccolta di brevi frammenti – spesso solo una o due frasi – tratti da opere dell’Alto Medioevo; un altro è l’autobiografia di un sacerdote abruzzese del Settecento. Operazione di straordinario virtuosismo erudito, in cui i presunti autori dei passi sono spesso scrittori e teologi minori realmente esistiti, mentre le opere sono a volte inventate e a volte reali. In ogni caso, tutto è verosimile: il diario del sacerdote Domenico De Lellis, per esempio, imita alla perfezione la prosa del XVIII secolo.
Il libro venne pubblicato nel 1975 e sono chiari i punti di riferimento culturali e letterari (anno fortunato per le nostre lettere, noteremo a margine: lo stesso in cui uscì quell’altro capolavoro di Horcynus Orca). Le citazioni di opere inventate rimandano a Borges (che infatti viene nominato di sfuggita), la ricostruzione per frammenti richiama il postmodernismo e le avanguardie, e di lì a cinque anni infatti sarebbe arrivato l’enorme successo di quell’altro pastiche postmoderno che è Il nome della rosa di Umberto Eco.
Eppure, come tutti i grandi libri, Il quinto evangelio ha una forza e un fascino che va oltre il suo tempo e trascende i suoi dati di contesto. Per prima cosa, è la storia di una tensione, di una ricerca che non si esaurisce: quella portata avanti da Peter Bergin, l’ufficiale americano, che appare in qualche pagina, come in controluce, una potente metafora universale dietro cui il lettore può leggervi anche la sua personale ricerca, l’ossessione della sua propria vita.
È anche un’opera da cui traspare l’amore per la cultura, la lingua e le parole, in breve per la filologia (ovvero lo studio della ricostruzione e dell’interpretazione dei testi): Pomilio studiò alla Normale, dove quella disciplina, ancora quando la frequentai io più di un decennio fa, dominava con una supremazia che a tratti assumeva una dimensione quasi mistica. E in terzo luogo Il quinto evangelio è un’esplorazione del fenomeno religioso, del Cristianesimo: è un libro profondamente cristiano e cattolico, in cui si riflette sulla fede, sulle Sacre scritture, sul peso della tradizione.
Pochi giorni fa, gli stessi in cui ero occupato nella lettura di Pomilio, sono entrato per la prima volta nella Sagrada familia di Barcellona, straordinaria e ugualmente inattuale, carica com’è di simboli della fede accuratamente dispiegati, monumento splendido a una religione in crisi (sotto la luce multicolore filtrata dalle vetrate c’era chi si faceva ritrarre dal compagno di viaggio in pose ammiccanti, da pubblicità di costumi da bagno). Oggi non si costruiscono più nuove chiese, almeno nel nostro mondo, e nemmeno si scrivono romanzi, come quello di Pomilio, in cui la fede è una premessa di cui non ci si debba vergognare né giustificare.
Ma le profondità di Pomilio e la chiesa di Barcellona mostrano quanto di quella cultura sia e rimanga la nostra cultura, anche se proviamo a negarla e a girarci dall’altra parte. La teologia è forse l’attività intellettuale umana meno alla moda di tutte, fatte salvo forse la lettura delle viscere degli animali e la ricerca della pietra filosofale, ma ciò non toglie che sia in grado di pensieri di straordinaria raffinatezza: già ce lo ha fatto riscoprire qualche giorno fa, in occasione della morte di Joseph Ratzinger, qualche analisi (come questa) del pensiero del papa emerito.
Viene allora da chiedersi, vincendo il timore di suonare reazionari, quanto ci stiamo perdendo ad esserci dimenticati della religione. Nella sua versione contemporanea più visibile il cristianesimo esiste nella società come pratica intima e personale o confinata in chiese e parrocchie mezze vuote, oppure come vago e poco convincente richiamo di leader politici dalla spiritualità rozza e improbabile, fatta di croci al collo e dialoghi con i propri angeli custodi; confinata peraltro a elemento distintivo di una sola parte politica, i cui vertici la esibiscono perché devono, come segnale di posizionamento.
Il resto della nostra società, e in particolare quella che si reputa più moderna e illuminata, ignora del tutto il fenomeno religioso. Lo rimuove, addirittura, con la conseguenza di una strana dissociazione: difficile capire qualcosa non dico dei nostri libri o dei nostri quadri prodotti fino all’altroieri, ma delle nostre stesse strade e piazze, i cui monumenti nascono in larghissima parte in nome della religione, se non riconosciamo e proviamo a capire che cosa voglia dire una società cristiana, come la nostra è stata per secoli e in realtà per la grandissima parte della sua storia. Con questo non dico che dovremmo tornare al passato e neppure che sia necessario qualche genere di restaurazione: come tutti, mal tollero i fanatismi. Ma Il quinto evangelio ha il merito di aprire gli occhi e gettare luce su una parte di noi che abbiamo dimenticato, di far nascere nuovi dubbi, nuove domande.
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