La scorsa settimana ho parlato delle false memorie nella lettura. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Pochi giorni fa mi sono imbattuto in un articolo che notava un lampante conflitto di interessi ne La Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera. Qui è stata pubblicata una recensione che – oltre a essere scritta piuttosto da cani, almeno a giudicare dagli estratti – era firmata dal capo di un’agenzia letteraria che promuove… il libro stesso (fatto peraltro facilmente verificabile sul sito dell’agenzia).
L’episodio è certo disdicevole ma, per prima cosa, non stupisce più di tanto chi ha qualche dimestichezza con la “cucina” delle testate italiane: mi è capitato di lavorare in un posto in cui un prolifico recensore nelle pagine della cultura faceva, di mestiere, l’addetto stampa, e parlava in articoli a sua firma delle stesse cose che promuoveva per lavoro. Le pubblicità dovrebbero essere chiaramente indicate come tali al lettore, o almeno così prescrive la deontologia professionale, ma per diversi motivi, inclusa la fame di contenuti delle testate e la sempre minore disponibilità a pagarli, non è raro che il confine sbiadisca e si verifichino casi come quello della Lettura.
D’altra parte il rapporto nostrano con il concetto di conflitto di interessi è piuttosto complicato anche al di fuori del mondo letterario. Abbiamo avuto una ministra che sosteneva non ci fosse alcun problema nel fatto che il governo di cui faceva parte si occupasse della banca per cui aveva lavorato il padre, in quanto al momento delle decisioni in merito lei… lasciava la stanza. L’Antitrust in quel caso confermò la sua versione, e dunque chiaramente è a noi che sfugge qualcosa.
Ma dall’altro lato, carattere nazionale a parte, bisogna anche chiedersi quale sia oggi il ruolo delle pagine culturali sui quotidiani. Non riesco a ricordare l’ultima volta in cui ho letto un libro per averne visto una recensione positiva su un giornale cartaceo. Viviamo in mezzo a un bombardamento di stimoli che ci arrivano da tutte le parti: la centralità degli inserti culturali nel dettare l’agenda del dibattito letterario è ridotta fin quasi allo zero, davanti alla concorrenza non più soltanto del caro vecchio passaparola, ma anche dei social network o dei podcast o delle newsletter. Mi ero ripromesso di dedicare una puntata di questa newsletter a una lettura ragionata degli inserti dei quotidiani, ma più passa il tempo più mi rendo conto che sarebbe come andare allo zoo o in un museo sconosciuto, come entrare insomma in territori poco frequentati.
Così anche le gloriose riviste letterarie, che pure esistono e sono ancora una tappa possibile nel percorso di chi vuole diventare scrittore, hanno sempre più l’impressione di qualcosa scritta dagli appartenenti a un piccolo gruppo, quello di chi lavora nell’industria culturale, con l’obbiettivo primario, in buona sostanza, di mandare comunicazioni interne. Salvo qualche caso di pubblicazioni di amici – magari anche degnissime, aggiungo per gli amici in ascolto – non mi è mai capitato, nell’intera mia carriera di lettore, di imbattermi in un racconto contemporaneo uscito in rivista e che fosse, in qualche modo, riuscito a superare la barriera degli addetti ai lavori e ad arrivare fino a me. Perfino la letteratura è diventata una pubblicazione di settore, in un certo senso.
Come un po’ tutti i pubblici, con la Rete e la fine della società di massa – in cui pochi emittenti, radiofonici, televisivi o giornalistici, dettavano più o meno a tutti, per mancanza di alternative, l’agenda nell’intrattenimento, nell’informazione e nella cultura – anche il pubblico dei libri si è polverizzato in mille nicchie e micromondi.
L’ultimo di cui si parla è ora quello della promozione di libri su TikTok, che a quanto pare fa vendere un sacco di copie, ma da cui – non frequentando quel social network, né avendo intenzione di farlo – rimarrò irrimediabilmente escluso. Oltre a quelle create dai canali di diffusione, continuano ad esistere poi le nicchie “di genere”: ci sono interi forum in cui si parla soltanto di narrativa young adult, così come ci sono siti che si occupano solo di Tolkien e gruppi Facebook che parlano soltanto di Borges.
L’atomizzazione che si ritrova un po’ dappertutto nelle nostre società, in cui si ha l’impressione di far parte di alcune tribù senza mai avere contatti o scambi con le altre, ha investito in pieno anche il discorso culturale. Con Internet le nicchie hanno trovato il modo di fiorire e raggiungere dimensioni globali, mentre l’uniformità dei gruppi “vicini” (per età, estrazione sociale, geografia) è diventata sempre minore. Fino a generare un curioso paradosso: si può partecipare a un gruppo Telegram con trentamila appassionati dello stesso argomento da tutto il mondo, ma è sempre più difficile decifrare, o prevedere in anticipo, quali sono i mondi abitati da chi ci sta di fianco in treno o in metropolitana.
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