La scorsa settimana ho parlato del ritorno di Jonathan Franzen. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo e qui un bilancio del primo anno di questa newsletter. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
I libri che ci restano impressi sono quelli in cui leggiamo le cose che abbiamo sempre pensato, ma non abbiamo mai messo per iscritto o non lo abbiamo fatto sufficientemente bene. Il mio amico Dario, vecchia conoscenza di queste pagine, mi ha consigliato un saggio di George Steiner, Tolstoj o Dostoevskij (pubblicato in Italia da Garzanti).
Il tema del saggio è il confronto tra i due grandi romanzieri russi. Quello che mi interessa qui però sono le pagine introduttive. Steiner comincia così:
La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore. In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo il libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo.
Verissimo. Ma questo non è vero per tutti i libri. Se ripercorro le mie letture dello scorso anno, non ce ne sono poi molti quelli che mi hanno lasciato diverso da come mi avevano trovato. Già Steiner fa sorgere in me il germe del dubbio. Continua con queste parole, rincarando la dose:
Le grandi opere d’arte ci attraversano come venti di tempesta, spalancando le porte delle nostre percezioni e investendo l’architettura delle nostre convinzioni con la loro potenza trasformatrice. Noi cerchiamo di registrare il loro urto e di riorganizzare la nostra casa sconquassata secondo un nuovo ordine.
Giunto a questo punto, ammetto di aver provato una certa invidia per il vecchio George. Lo sconquasso libresco, devo ammettere, è senz’altro un’emozione che ho provato, ma che collegavo più a certe scoperte dell’adolescenza, quando l’immaginazione è più sensibile e più pronta alla meraviglia – la prima volta che ho letto L’Aleph di Borges, ad esempio, oppure I Buddenbrook di Thomas Mann. Ma Steiner rivela subito dopo che queste righe, attraversate da uno spirito innegabilmente romantico (i venti in tempesta, la casa sconquassata), hanno in mente un bersaglio polemico chiaro:
Dico queste cose perché la maggior parte della critica contemporanea appartiene a tutt’altra tendenza.
E se prima Steiner aveva la mia curiosità, ora, per citare Leonardo DiCaprio in quel film di Tarantino, now you have my attention. Con chi ce l’ha il nostro Steiner? Per prima cosa, con la critica poco comprensibile: «criptica, capziosa, esageratamente consapevole della sua discendenza filosofica e della complessità dei suoi strumenti». Facile riconoscere, anche oggi e nel panorama italiano, diversi esempi di quella critica. Oggi nessun nome di critico letterario esce dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori e si vive assai bene in tale beata ignoranza, ma all’università mi inflissi diversi dei nomi più in voga del settore, trovandoli del tutto incomprensibili. E non tanto per la profondità di pensiero: quella è una qualità che si riconosce e si ammira, e che semmai fa mettere da parte il testo (come spesso succedeva) con la promessa, quasi sempre disattesa, di tornarci quando si sarà più vecchi e più saggi. Intendo incomprensibili nel senso letterale del termine: saggi, libri, persino interventi, quando qualcuno di loro veniva anche a tenerci qualche lezione, in cui anche con la più grande buona volontà non riuscivo a seguire il filo logico. Più ancora, non riuscivo ad afferrare nemmeno il significato primo, la parafrasi più semplice di quelle parole.
Quella critica, mi conforta Steiner, è da poco, e finisce per occuparsi di libri altrettanto dimenticabili.
Esiste in effetti una grande quantità di opere da seppellire se vogliamo tutelare la salute della nostra lingua e della sensibilità. Troppi libri, invece di arricchire la nostra coscienza, invece di essere sorgenti di vita, ci tentano con le armi della facilità, della grossolanità e del più effimero dei piaceri. Ma quelli sono i libri destinati al mestiere del recensore, non all’arte meditativa e ricreatrice del critico.
C’è molto da dire, su questo passaggio. Mi limito qui a notare come Steiner abbia la più alta concezione della lettura: sorgente di vita. Per lui, come per pochi e fortunati lettori (comincio qui ad accostare il lettore al critico), i libri sono una passione vitale. E parafrasando il vecchio adagio, secondo cui chi vive a Parigi – a volte si trova detto anche “a New York” – si meraviglia che qualcuno viva sul serio da un’altra parte e non lo faccia piuttosto per scherzo, così per il lettore steineriano chi ha una diversa passione, o si approccia ai libri in modo meno colmo d’amore, deve farlo per sbaglio o non proprio sul serio.
La realizzazione successiva è altrettanto folgorante (e non abbiamo neppure finito la prima pagina di Tolstoj o Dostoevskij):
A differenza sia del recensore che dello storico della letteratura, il critico dovrebbe occuparsi di capolavori. Il suo primo compito è quello di distinguere non tra il buono e il cattivo, ma tra il buono e l’ottimo.
Conclusione cruciale e che chiama in causa anche il lettore accanito. Che se non è per forza un critico ha però ancor meno da spartire con il recensore, che deve tener d’occhio le ultime uscite per dovere, per darne conto al pubblico, e figuriamoci con lo storico della letteratura, che deve tener lezioni e scrivere libri per sostenere la sua carriera accademica. Steiner ha un’opinione assai netta: non bisogna perdere tempo a leggere brutti libri. E dunque io – che ho appena acquistato un’uscita recente che mi ha incuriosito, ma la cui quarta di copertina già rivela non essere né Kafka né Proust, e che ho dedicato l’uscita prima di questa a un libro certo buono di Franzen, ma purtroppo non ottimo – sto commettendo un grave errore?
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