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Mi è capitato di recente di leggere l’inizio di un romanzo italiano contemporaneo in cui il personaggio principale, per rilassarsi, decide di ascoltare qualcosa con il suo impianto stereo. La frase è qualcosa del genere: «Marco accese il suo vecchio amplificatore Pioneer e le sue casse Opera e mise su Liege & Lief dei Fairport Convention (1969)…» eccetera. Ho cambiato i marchi commerciali e l’album, ma per il resto lo stile è quello, data di pubblicazione tra parentesi inclusa.
Da lettore, c’è qualcosa che mi è suonato istintivamente fuori posto, se non francamente brutto e sgraziato, a leggere una frase del genere. Ho provato a capire perché.
Per prima cosa, trovo che l’esempio qui sopra riveli un atteggiamento inutilmente poco accessibile nei confronti del lettore, che potrebbe non conoscere quei marchi e dunque non avere alcuna idea di che cosa dovrebbero trasmettere: si tratta di oggetti costosi o meno, che rivelano cattivo gusto o al contrario un fine conoscitore del settore?
In questo caso, potremmo forse intuire qualcosa dagli elementi del contesto – il carattere del personaggio, la sua disponibilità economica e così via – ma in realtà il senso pieno della frase è lasciato solo ai relativamente pochi iniziati che conoscono bene i diversi produttori di sistemi hi-fi e gli album folk rock britannici (peraltro l’album che ci ho messo l’ho scelto io, nell’originale ce n’è uno – appunto – a me del tutto sconosciuto).
Si tratta insomma di una frase paradossalmente opaca proprio quando nomina gli oggetti con precisione da catalogo, ed è un’opacità inutile, un po’ compiaciuta, che si poteva risolvere aggiungendo qualche aggettivo. Il nome esatto dell’amplificatore, se non si scrive per una rivista di settore, mi pare poco importante.
Ma oltre a questi piccoli fastidi, c’è anche qualcosa d’altro, che ha a che fare con le cose che è bene o meno far entrare nei libri. Qualche tempo fa un amico mi fece notare un bel brano di Tolkien, tratta da un saggio del 1939 (On Fairy Stories), che esprime al meglio il concetto:
The electric street-lamp may indeed be ignored, simply because it is so insignificant and transient. Fairy-stories, at any rate, have many more permanent and fundamental things to talk about. Lightning, for example.
Che si potrebbero tradurre così:
Il lampione elettrico può infatti essere ignorato, per il semplice fatto che è insignificante e temporaneo. Le favole, ad ogni modo, si occupano di cose ben più permanenti e fondamentali. Il fulmine, per esempio.
Tolkien dice che nelle favole si parla di oggetti o fenomeni eterni, che si riferiscono immediatamente all’esperienza di tutti gli esseri umani. Certo, applicando il concetto alla letteratura più in generale, non si può certo pensare di imporre un immaginario fatto soltanto di forze della natura e utensili elementari, a meno che non si voglia ambientare ogni opera in una sorta di preistoria immaginaria. Non sto suggerendo che l’amplificatore venga sostituito con un tamburo.
Piuttosto, l’idea mi sembra quella di lasciare sempre un certo distacco tra i libri e la contemporaneità più stretta, visto che le mode passano e quanto oggi appare rilevante o soltanto comprensibile potrebbe non esserlo più dopodomani. È facile pensare che la marca esatta dell’amplificatore non dirà più nulla a nessuno tra qualche tempo. E se non si scrive un romanzo con l’aspirazione ad essere ancora letti tra trenta o quarant’anni, che cosa lo si scrive a fare?
Oggi peraltro possiamo dire con certezza che il lampione non era affatto temporaneo e nessuno si sognerebbe di trovarlo fuori luogo in un romanzo contemporaneo. Ma Tolkien non lo poteva sapere e probabilmente sentiva la stessa nota stonata, a legger di lampioni, che sentiremmo noi a trovare tra le pagine di un romanzo un riferimento a uno smartphone o a TikTok. I libri sono mondi di simboli: e se qualcosa non ha la forza per significare qualcos’altro, o almeno per mantenere intatta la sua capacità descrittiva anche a distanza di tempo, rimane inerte sulla pagina, ingombrante come uno scarto, un rifiuto. È come se la letteratura fosse un setaccio che, quando è buona, filtra per noi le cose davvero importanti.
Non sono ancora certo di aver capito perché la letteratura imponga questa distanza, questa cautela, e perché gli oggetti scartati suonino così fastidiosi. Forse perché in qualche modo è come la storia, che ha bisogno di tempo per comprendere il contesto e dare ad ogni cosa la giusta dimensione (quanto successo una settimana fa non è di interesse dello storico, ma del cronista). Forse perché non vogliamo essere rammentati troppo da vicino della fibra banale del nostro mondo di tutti i giorni. Possiamo solo dire che, come aveva intuito Tolkien, un fulmine sarà sempre molto più interessante di un lampione.
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