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Qualche tempo fa scrissi su un’altra piattaforma, che ormai ho abbandonato, una breve riflessione sulla necessità, per i giornalisti, di essere un po’ più parsimoniosi nel dispensare le proprie opinioni. La ripropongo qui di seguito, con qualche modifica, perché mi pare che gli ultimi avvenimenti l’abbiano fatta tornare di attualità.
Tutti hanno diritto alle proprie opinioni e una delle fortune di vivere in una democrazia è la possibilità di esprimerle senza temere conseguenze negative. Sono però convinto che tale libertà vada in qualche modo temperata quando si parla di giornalisti, la professione a cui appartengo.
A un primo sguardo, i giornalisti sono in un’ottima posizione per esprimere opinioni sull’attualità, proprio perché persone in linea di principio più informate sui fatti. E d’altro canto, i giornalisti sono cittadini come tutti gli altri. I social media oggi danno la possibilità di esprimersi in tempo reale e pubblicamente, raggiungendo potenzialmente un vasto pubblico. Chi meglio dei giornalisti, quindi, per un’interpretazione informata del mondo?
Questo, in effetti, è quello che accade oggi. Non c’è fatto di cronaca, approvazione di legge, dichiarazione politica, cambio di governo che non si accompagni a un coro di prese di posizione, a cui partecipano spesso e volentieri molti giornalisti: anche con ruoli di responsabilità nelle redazioni, anche con lunghissime e onorate carriere alle spalle.
Basta conoscerne qualcuno su Facebook o seguirne qualcuno su Twitter perché le loro opinioni politiche — pro o contro il governo, da una parte o dall’altra della barricata sull’immigrazione o i diritti civili, perfino sostenitori o meno di Trump — siano pubblicamente e quotidianamente esibite.
Tutto questo mi sembra profondamente sbagliato. Dirò di più: dannoso.
A mio modesto avviso, e senza ambire a convincere nessuno, il giornalista dovrebbe essere un po’ come il magistrato. Cioè: ovviamente i giudici hanno le proprie opinioni politiche. Ma è parte del loro dovere professionale agire come se non le abbiano. Risparmiandosi di esternarle. Evitando impegni diretti in politica. Non pronunciandosi su questo o quel partito, questo o quel politico. È una norma di autodisciplina che evita guai più grossi.
Infatti, quando il giudice si immischia con la politica — e in Italia lo abbiamo visto spesso — finisce per essere tirato in ballo nella lotta tra gli schieramenti, per indossare, volente o nolente, la casacca di una squadra. E di conseguenza il pubblico si fiderà di meno della sua autonomia, quando dovrà pronunciarsi su un politico o su una questione molto dibattuta.
Lo stesso accade per i giornalisti. Sono convinto che, per un giornalista, possedere la casacca di questo o quello schieramento sia una vera disgrazia: nel momento in cui la si indossa, una parte importante del pubblico non farà più caso alle cose che dirà o, peggio ancora, lo identificherà come un avversario.
Ma c’è di più. Prendere posizione alimenta una sorta di inerzia, di pigrizia che viene dalla pressione sociale e dalla propria costruzione di un personaggio pubblico. Mi spiego meglio. Se per mesi ho preso posizione sui social network su questo o quel tema, è molto facile che mi sia creato un séguito di persone che mi apprezzano e mi seguono proprio perché ho espresso quelle posizioni. Magari ho sviluppato amicizie, ho partecipato ad eventi, ho ottenuto visibilità grazie ai miei post o ai miei tweet. In altre parole, ho fatto una scelta di campo e mi sono arruolato in una squadra.
Visto che però il mestiere del giornalista è fatto di un sano scetticismo continuo, di una quotidiana ridiscussione di quanto si sa o si crede di sapere (come sono andate le cose in questa vicenda? chi sta provando a fornirmi informazioni sbagliate o manipolate? qual è l’interesse di questo o quell’attore nel fatto di cui mi sto occupando?) sarà sempre più difficile mantenere l’autonomia di giudizio, ovvero la possibilità se necessario di tornare sui propri passi e di ammettere di avere sbagliato.
E gli errori esistono, le trappole sono sempre dietro l’angolo. Ma un giornalista che non è in grado di mettere le cose in discussione e di evitare di leggere le cose con schemi precostituiti serve a poco e rischia di fare a pezzi la propria credibilità.
Risparmiarsi di esprimere la propria opinione non vuol dire restare silenti o praticare l’autocensura. Tutt’altro: vuol dire, al contrario, fare di più e meglio il proprio mestiere. Se si pensa che una parte politica sia autrice di incredibili malefatte, la cosa migliore da fare è riportarle, comunicarle al proprio pubblico lasciando che siano i fatti a parlare. I commenti e le idee se le faranno da soli i cittadini, senza bisogno che l’informazione sia accompagnata, ogni giorno, da un frastuono di banalità e di prese di posizione dimenticabili.
Con il ruolo di informare il pubblico viene anche una certa dose di responsabilità. Quella che viene dal fornire i materiali per il dibattito avendo, allo stesso tempo, una posizione privilegiata per orientarlo. È una cosa non troppo diversa da possedere i mezzi di comunicazione e avere un ruolo in politica: sono due sfere che è necessario tenere separate.
D’altra parte, non si può suggerire che ad occuparsi di questo sia una qualche forma di legge o di regolamento. Il silenzio dei giornalisti dovrebbe essere una questione di autoregolamentazione. Una tensione professionale, ma ancor più personale, dei professionisti che decidono ogni giorno di non usare un piccolo potere che, al di là di ogni dubbio, possiedono.
Ci sono tante altre categorie di persone — praticamente tutte le altre, magistrati esclusi — che possono occuparsi di fornire le opinioni. Gli esponenti politici forniranno la propria critica sulla base dell’ideologia (o qualsiasi cosa l’abbia sostituita oggi). Gli esperti riporteranno le posizioni della comunità scientifica. Gli attivisti delle associazioni rappresenteranno gli interessi di parte. I semplici cittadini le proprie opinioni e impressioni, che in quantità sufficiente potranno diventare uno strumento di protesta o di pressione.
Esistono ovviamente anche gli opinionisti, ovvero i giornalisti o i commentatori che hanno il ruolo di fornire anche una propria interpretazione degli avvenimenti. È un ruolo nobile, che in altre tradizioni viene mantenuto rigidamente separato da chi si occupa della cronaca. Non è di loro che parlo: fatta salva quella categoria specifica, i giornalisti di norma hanno un’altra missione. Se la svolgessero al meglio, ne guadagnerebbe la qualità del dibattito, la reputazione della categoria, la chiarezza dei ruoli in un discorso pubblico oggi così strepitante e confuso.
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