Nella scorsa puntata ho parlato de La città dei vivi di Nicola Lagioia. Benvenuti a tutte le nuove iscritte e i nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di questa newsletter. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Non guardo tanti film quanti vorrei, ma ero pronto a impegnarmi per tornare al cinema quando, nel mio podcast di cinema preferito (questo), ho sentito parlare di The Green Knight di David Lowery. Il mio entusiasmo iniziale si è scontrato con l’indisponibilità del film in tutte le non poche piattaforme per vedere contenuti in streaming ma, con un po’ di impegno, sono riuscito a recuperarlo lo stesso.
Il mio interesse per il film veniva dal fatto che è ispirato a un’opera letteraria straordinaria, Sir Gawain e il Cavaliere verde. E di questo vorrei parlare oggi, con evidente sprezzo del pericolo e anzi un chiaro tentativo di allontanare da questa newsletter molte abbonate e abbonati, che almeno il sabato mattina sperano forse in un po’ di evasione.
Si tratta di un poema inglese della fine del Trecento che ha lasciato il segno nella cultura anglosassone – prova ne sia che qualcuno ha lavorato per portarlo sul grande schermo a più di settecento anni di distanza. In italiano l’edizione principale è quella a cura di Pietro Boitani per Einaudi, uscita nel 1986 ma ancora disponibile in ristampa.
Curiosità: l’edizione critica e una delle traduzioni più celebri in lingua inglese moderna del testo è stata fatta da J.R.R. Tolkien – proprio lui, l’autore del Signore degli Anelli – un centinaio di anni fa e, per questo motivo, editori contemporanei piuttosto furbetti appiccicano sopra il titolo il nome di Tolkien come se fosse l’autore.
La storia, in breve, è la seguente. Un misterioso cavaliere verde raggiunge la corte di Artù e chiede che uno dei presenti accetti una sfida. Gli avventurosi convenuti non aspettano altro e ad aggiudicarsi la competizione è il prode Gawain. Sembra d’altra parte una vittoria scontata, perché il cavaliere verde vuole che gli si dia un colpo, uno solo, senza che lui si difenda. Gawain, senza fare troppi complimenti, ne approfitta e taglia la testa al nuovo venuto. Ma qui avviene il colpo di scena che mette in moto l’azione: il cavaliere verde raccoglie la sua testa mozzata e dice che tra un anno restituirà il colpo a Gawain. Il quale resta di sasso e comprensibilmente preoccupato, visto che non crede di poter mantenere lo stesso aplomb nel caso finisca decollato.
È una storia laterale e periferica del ciclo arturiano, scritta in un tempo e in un luogo (l’Inghilterra nordoccidentale) lontani dai testi più famosi associati alla leggenda. Bisogna anche aggiungere che non è possibile ricostruire un unico, lineare e coerente universo narrativo intorno alle storie di Artù: su questo tornerò in futuro, perché ad esempio gran parte delle immagini e delle vicende che associamo alla Tavola rotonda viene da un film della Disney a sua volta basato su un romanzo di metà del Novecento, e in poche parole l’idea di una persona del Ventunesimo secolo di che cosa sia la leggenda arturiana è lontano dai testi che hanno creato il ciclo come I promessi paperi – con tutto il grande rispetto che ho per il fumetto – è lontano dal Manzoni.
Naturalmente siamo davanti a un’opera che ha la sua età. Mentirei quindi se dicessi che la lettura è scorrevole come potrebbe promettere il mio fumettoso riassunto. D’altra parte, leggere testi antichi è un po’ come imparare una nuova lingua: bisogna abituarsi ad altri ritmi, altre coordinate culturali e altri sistemi di riferimento, accettare un’inevitabile distanza. Ma anche dietro i molti veli costruiti dal tempo si riesce ad avvertire la differenza tra un capolavoro e un testo mediocre – e il cielo sa quanti testi tremendi si devono infliggere gli specialisti di qualsiasi letteratura e di qualsiasi epoca.
Perché Sir Gawain e il Cavaliere verde è un libro così bello, allora? Mentre lo rileggevo ho pensato che alcuni dei passi davvero in grado di attraversare i secoli hanno a che fare con la frequente constatazione, venata di amaro realismo, del passare del tempo e dell’inevitabilità del destino, un tema così potente nella letteratura che lo si sente risuonare in tanti luoghi e tanto diversi – penso alle celebri ultime righe di Sulla strada di Jack Kerouac o all’altrettanto celebre ultima frase del Grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald o alla Montagna incantata di Thomas Mann o all’Immortale di J.L. Borges, solo per citare i testi che mi sono più cari – e che con ogni probabilità è uno dei pochi o pochissimi temi che, messi bene in pagina, rendono davvero universali le opere d’arte.
Non c’è solo questo nel Cavaliere verde, ma voglio mettere qui uno dei versi che più mi rimasero impressi la prima volta che lo lessi, tanti anni fa. Arriva dopo un passo in cui l’autore ha descritto il susseguirsi sempre uguale delle stagioni. L’originale, che mi sento in dovere di riportare per i puristi, dice And thus yirnez the yere in yisterdayez mony, che nella bella traduzione italiana suona così:
Scompare così l’anno in tanti ieri
E lascio ai più coraggiosi la sfida di scoprire cosa c’è prima e dopo.
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