Nella scorsa puntata ho parlato di libri scritti dall’intelligenza artificiale, infrangendo ogni record di lunghezza per questa newsletter. Se siete nuovi qui, ecco una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che trovi qui sotto ti piace, condividilo con qualcuno che potrebbe apprezzare. E infine, se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, il sabato, cliccando qui.
Ho spesso un problema con i nuovi film. Fatico a sopportare le scene violente, che mi sembrano troppo frequenti, spesso inutili, voyeuristiche, in definitiva insopportabili. Mi interesserebbe La società della neve, uscito da poco e candidato agli Oscar, dedicato a un celebre disastro aereo sulle Ande. Ma ho sentito in un podcast (il sempre ottimo Gli incompetenti) che la scena dell’incidente è resa in modo assai vivido, che la meccanica dei corpi massacrati è ricostruita con dovizia. E mi chiedo: davvero ho voglia di sorbirmi una scena così? No, non ne ho molta voglia.
La violenza cinematografica di per sé non mi dà fastidio, di solito non distolgo lo sguardo e non ho problemi con il sangue figurato. È più un inconveniente, una sgradevolezza, qualcosa che tocca sopportare con un certo disagio sperando che finisca in fretta come la barzelletta dello zio che si crede spiritoso ai pranzi di famiglia. Non dico che la violenza cinematografica non abbia mai ragion d’essere, perché qualche volta è funzionale a far passare un messaggio o ha una finalità espressiva che la giustifica. Ma ho l’impressione che, nella grande maggioranza dei casi odierni, la rappresentazione della violenza non sia altro che una scorciatoia, un trucco per suscitare nello spettatore una reazione forte e viscerale. Come scrisse Umberto Eco in una delle aperture folgoranti dei suoi saggi, a proposito dei film o dei libri (ora non ricordo) strappalacrime, chi dice di non venirne commosso mente: sono fatti apposta per quello. E così non si può restare indifferenti davanti alla violenza, le ossa rotte sono un modo facile per farci restare in mente qualcosa che magari rischierebbe di passare inosservato. Ed è possibile che la violenza iperrealista sia anche parte di una moda, magari aiutata dall’evoluzione dei mezzi tecnici e degli effetti speciali. Si può rappresentare la violenza con più crudezza che in passato, il cinema horror sta vivendo un’età dell’oro come non se ne vedeva una dagli anni Settanta, insomma è possibile che il grand guignol faccia anche parte del gusto contemporaneo. A me però non piace.
Qualcosa del genere si vede anche nei libri. Qualche anno fa lessi Il signore degli orfani (Marsilio, 2018, ma uscito nel 2013 negli USA con il titolo The Orphan Master's Son), un romanzo ambientato in Corea del Nord scritto da un certo Adam Johnson. Non l’ho mai più incrociato, ma pare che quel libro fosse andato benissimo (vinse il premio Pulitzer per la narrativa nel 2013) e che lui oggi sia professore di inglese a Stanford. Fortunato lui: il romanzo traeva il massimo dal poco che sappiamo di quella assurda dittatura, costruendo una storia piuttosto implausibile per quanto in parte ispirata ad eventi reali, ma il finale si abbandonava alla descrizione di una serie di violenze e di torture così caricaturali e grottesche da sconfinare nel peggio che può fare un’opera d’arte, cioè suscitare la comicità involontaria.
Di recente mi è tornato in mente il tutto sommato dimenticabile libro di Johnson leggendo Le benevole (Einaudi, 2007, 996 pp., ed. or. Les bienveillantes, 2006), il fluviale romanzo di Jonathan Littell che suscitò grande scandalo all’uscita, quasi vent’anni fa. Scandalo dovuto al fatto che il protagonista, Maximilien Aue, è un nazista impenitente, che oltre a commettere diversi orrori e nequizie nella sua vita personale partecipa a numerosi dei peggiori crimini del nazismo sul fronte orientale. Perfino troppi: ha un tempismo da Forrest Gump o da Gianni Minà, è sempre al posto giusto al momento giusto per collezionare presenze negli episodi chiave di Stalingrado, Babi Yar, della caduta di Berlino.
A onor del vero, le prime due o trecento pagine viaggiano dalle parti del capolavoro. Concentrandosi su quella sezione – suppergiù il primo terzo del romanzo – e mettendo da parte per un momento tutto il resto, la scelta del punto di vista è ovviamente rischiosissima ma tutt’altro che gratuita, certo non apologetica né presa solo per épater le bourgeois. Vale la pena stare a sentire la voce di Aue, non tanto per le sue giustificazioni razionali del nazismo o dell’antisemitismo, quanto perché il suo essere nazista non particolarmente pentito emerge come un presupposto, una condizione preliminare della sua vita. Aue non sceglie di partecipare alle stragi e non lo fa in preda allo zelo ideologico né alla furia assassina. Vi prende parte perché è l’esito naturale di una lunga catena di scelte precedenti, nessuna delle quali necessariamente omicida.
Si coglie un aspetto della tragedia della Seconda guerra mondiale e in verità di tutte le tragedie umane, cioè l’essere, da un certo punto di vista, solo una conseguenza di lontane scelte sbagliate o odiose. Una volta che si indica in un intero gruppo etnico come un nemico, si pongono le basi per inserire nell’orizzonte degli eventi anche la strage e la violenza, che diventano una sorta di sgradevole, imbarazzante possibilità. Che a un certo punto, senza che nessuno lo dica mai apertamente – ed è incredibile come, a studiare la storia del nazismo, nei passaggi chiave per ordinare lo sterminio, inclusa la celebre conferenza di Wannsee, si usino sempre e solo eufemismi, giri di parole, allusioni, le cose non vengano mai chiamate con il loro nome: «la soluzione finale» – diventano un compito per qualcuno.
L’Olocausto, il vero protagonista del libro, è un terribile dovere nato in una serie di premesse storiche e ideologiche piuttosto lontane e rimosse dagli atti veri e propri, che i protagonisti non per forza conoscono o comprendono a fondo e che Aue, insieme a molti altri, mette in pratica senza piena consapevolezza, come se fosse un obbligo di servizio, una parte del lavoro. Un onere – questo è l’aspetto più sconvolgente – burocratico: si parla di come organizzare una strage dal punto di vista logistico o delle risorse umane, conversazioni da impiegati su qualcosa di radicalmente insensato e inumano. Non è solo la banalità del male, ovvero la collaborazione di qualche funzionario in uffici lontani dal fronte: anche chi compie quelle stragi sembra spinto da una forza più grande di lui, da qualcuno che ha deciso al posto suo. Ma quel qualcuno, se si dovesse stabilire esattamente il chi e il quando, non c’è.
Anche le scene violente allora hanno una giustificazione: la descrizione del massacro di Babi Yar del settembre 1941, quando oltre trentamila ebrei di Kiev vennero uccisi in un grande fossato a poca distanza dalla città, restituisce l’orrore e l’insensatezza di una tragedia inconcepibile, che quasi tutti portano avanti senza davvero volerlo e con un vago senso di disgusto. Di nuovo, non c’è nessuna apologia o giustificazione, e anche qui Littell si dimostra scrittore molto intelligente: Aue è una persona spregevole e quanto fa è aberrante, eppure le sue azioni sono fatte rientrare nel mondo del possibile, non sono derubricate a gesti di un pazzo. Anche perché l’Olocausto è effettivamente accaduto su questa Terra e ad opera di questi esseri umani, non più di tre generazioni fa.
Poi il libro deraglia e va via via peggiorando: la parte su Stalingrado ha ancora il suo perché, ma nell’ultimo terzo la spinta si esaurisce in modo così drammatico da rovinare, in retrospettiva, quanto era successo fino a quel momento. Se un amico mi chiedesse se vale la pena leggere Le benevole – ammesso e non concesso che qualcuno si interroghi ancora su un successo planetario di vent’anni fa di cui hanno già parlato e scritto anche i blog di cucina, ma da queste parti non si teme di arrivare un po’ in ritardo – la risposta più onesta è assolutamente sì, ma solo senza concluderlo. E ad essere davvero coscienziosi bisognerebbe individuare una pagina oltre la quale smettere tassativamente, perché se si arriva fino in fondo le parole per descriverlo potrebbero farsi impietose.
Le benevole è un libro pieno di violenza. Descritta senza risparmiare sui dettagli, sul sangue e sulle viscere, con lo stesso iperrealismo del cinema contemporaneo. Littell, insieme a tanti registi di oggi, si compiace di chiamare con il loro nome le povere cose che accadono ai nostri corpi di animali, sottoposti a eventi traumatici ed estremi. Ed è significativo che questo accada in una società in cui la violenza è sostanzialmente rimossa dalla nostra vita quotidiana a un livello inaudito per la nostra civiltà. Nelle sue lezioni (ad esempio questa) lo storico Alessandro Barbero descrive da par suo come nel Medioevo aggressioni, ferimenti e uccisioni fossero, se non proprio all’ordine del giorno, un evento piuttosto comune, e nelle cronache del tempo molti personaggi anche di primo piano della vita politica o artistica sono coinvolti in fatti di sangue, talvolta perfino con scarse conseguenze penali o di reputazione. Segno di quanto la violenza fosse endemica, parte della vita quotidiana.
Ma senza tornare indietro di secoli, ancora nei romanzi di Pasolini ambientati nei primi anni Cinquanta a Roma si parla di ragazzini delle borgate poco più che bambini che si sfidano a colpi di pietre e si spaccano le teste con grande disinvoltura. Potrebbe non essere un caso che alcuni dei film più violenti arrivati al grande pubblico vengano dall’Estremo Oriente, dove si trovano le società più pacifiche e meno aggressive del mondo come Giappone e Corea del Sud – da Old boy di Park Chan-wook agli innumerevoli film orientali a cui si ispira Kill Bill di Tarantino. È come se ci fosse un rapporto inverso tra la violenza che vediamo per strada e quella a cui siamo disposti ad assistere nei cinema o nei romanzi.
Non so da quando questa legge sia valida, anche se si può dire che non sia universale. Tornando al Medioevo, le rappresentazioni crude non mancano, anche se, bisogna dire, si tratta spesso (non sempre, ma spesso) di stilizzazioni piuttosto esagerate, prive della truculenza anatomica e dell’insistenza che oggi riusciamo a sopportare. Penso però che la progressiva inversione del rapporto tra violenza vissuta e realismo della sua descrizione artistica si ritrovi andando a ritroso nella storia letteraria almeno di un po’. Lev Tolstoj in Guerra e pace rappresenta diverse battaglie, ma quelle pagine messe di fianco a Le benevole sono di un pudore vittoriano. Eppure Tolstoj ebbe parecchia esperienza di guerra, nel Caucaso e soprattutto in Crimea, mentre Littell – che pure ha scritto anche un bel reportage dalla Cecenia appena uscita dalla guerra, Cecenia anno terzo – non è mai stato un soldato e a mia conoscenza non ha mai visto di persona un conflitto a fuoco, figurarsi i crimini nazisti. La violenza nei libri oggi ha sostituito la violenza nel nostro mondo, anche se a due passi da noi le guerre sono ancora una realtà.
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