Nella scorsa puntata ho parlato del rapporto tra lettura e scrittura. Se quello che leggi qui sotto ti piace, perché non inoltrarlo a qualcuno che potrebbe apprezzare? Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
I libri fanno viaggiare con la mente, dice il luogo comune, che è vero nella misura in cui si intende viaggiare in un senso assai figurato. Forse solo il sonno, tra le attività umane, permette di dimenticarsi di sé per lunghi periodi come la lettura: e in questo senso i libri sono in grado di portare lontano da sé, più che lontano nello spazio.
Ma se parliamo di veri viaggi, ovvero di scoperta di luoghi distanti e dei loro costumi, i libri sono spesso guide insufficienti, dato che trasmettono sensazioni più che descrizioni, tratti dell’uomo più che elementi architettonici. Se è vero che i libri riescono spesso a trasmettere l’essenza di un luogo, la realtà rimane sempre più ricca e più varia, e la visita letteraria non potrai mai sostituire quella fisica. Il fascino del Lido di Venezia, la sua spiaggia adriatica a venti minuti di vaporetto da Piazza San Marco, è qualcosa di ben diverso e di indipendente dall’ambientazione di Morte a Venezia.
L’insufficienza – o meglio l’autonomia – del libro rispetto alla realtà non esclude però che alcuni libri siano in grado di trasmettere uno straordinario senso di avventura. Me ne sono accorto leggendo in questi giorni Ebano di Ryszard Kapuściński (pubblicato da Feltrinelli nel 2000; l’edizione originale in polacco è di due anni prima), una raccolta di cronache dall’Africa del giornalista tratte dai suoi molti anni passati nel continente a partire dalla fine degli anni Cinquanta.
So che c’è un dibattito intorno alla veridicità di alcune delle storie che Kapuściński racconta, e ne so troppo poco per potermi esprimere con cognizione di causa: resta che, se fosse vero anche solo un quarto di quello che racconta, la sua vita è stata davvero fuori dal comune. Kapuściński parla di attraversamenti del deserto a bordo di camion che si rompono in mezzo al nulla, con acqua sufficiente per un giorno o poco più; di malattie terribili curate con le misere strutture mediche locali, per evitare di essere mandato in Europa rischiando di non poter più tornare a fare il corrispondente; di corse verso i luoghi dove scoppiavano guerre civili o venivano rovesciati governi, per testimoniare che cosa stesse succedendo. I rischi da correre appaiono spesso da pazzi, ma il giornalista li correva tutti, senza nascondere l’apprensione e la paura.
Ma Ebano non è un reportage di Vice, dove i pericoli si vanno a cercare spesso per il gusto di farlo e di scriverlo nel titolo: è anche una descrizione raffinata del continente africano e della sua varietà, dell’animo degli uomini che lo abitano, di un modo di vivere e di concepire sé stessi, il tempo che scorre, la relazione con la natura e la famiglia che ci sono lontani e quasi incomprensibili (lo stesso senso di mistero che si avverte dietro Spillover di Quammen, il saggio giustamente celebre diventato il best-seller di questa pandemia). Il tutto narrato con semplicità, senza lirismo o metafore ardite, senza voler fare, in altri termini, letteratura da quattro soldi: che poi è spesso quello che rende illeggibili tante corrispondenze dall’estero di nomi anche titolati. Basta raccontare quanto ci si trova davanti, come ci si sente, quello che si crede di aver capito.
Da un lato, Kapuściński è una lettura importante per chi è interessato al mondo là fuori, oltre i confini familiari dell’Europa e dell’America. Dall’altro, è una lezione di umiltà, perché viene inevitabile chiedersi: e io, che cosa sto facendo? Che cosa conosco del mondo? E altrettanto inevitabile concludere che, nei confronti di chi evase da Zanzibar su una barca a motore nel cuore della notte, sperando che non ci fossero guardie sulla costa a sparargli, la propria esistenza non è tanto più emozionante di uno scrupoloso impiegato del catasto.
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