Nella puntata precedente ho parlato di un bel libro su Mani pulite. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Sono grato, e anche un po’ stupito, che questo piccolo esperimento abbia più dei cinque o sei lettori che mi garantiscono l’ampia famiglia e gli amici più stretti, perché mi rendo conto di essere spesso spinto non solo verso libri e autori non proprio del giorno, ma anche temi del tutto inattuali e fuori moda. Ma la curiosità segue a volte strade tutte sue: dunque proseguo sulla linea dell’inattualità ed eccomi qui a rispolverare una questione che avevo sfiorato in fondo alla mia uscita di poche settimane fa sull’ottimo Thomas Bernhard.
Esiste oggi un carattere nazionale della letteratura? Oppure, in altre parole: quali sono, se ci sono, le differenze tra quanto si scrive in Italia, in Francia, in Germania o negli Stati Uniti? E ha senso, è ancora utile, notare quelle differenze?
La domanda suona almeno in parte retorica o dalla risposta scontata: come grado minimo, si dirà, c’è una differenza dovuta alla lingua. Questo primo elemento appare oggi più problematico del previsto. È diffusa infatti negli ultimi tempi una certa visione riduttiva e funzionalista della lingua, in base alla quale essa sarebbe soltanto uno strumento in mano alle persone per il mero espletamento della necessità di esprimere i concetti: di qui alcune spericolate opinioni, che pure si sentono e si leggono spesso, che l’italiano ad esempio sarebbe in qualche modo peggiore dell’inglese perché impiega più parole, o più fonemi, per dire la stessa cosa. Una prospettiva del genere però ignora la storia. La lingua è sempre appunto un fenomeno storico, portandosi dietro un patrimonio di cultura sedimentata nel corso dei secoli che l’ha plasmata e resa quanto è oggi. Così – per fare soltanto due esempi – è assai povero, e quasi impossibile oltre un certo grado di familiarità, pensare all’italiano senza tenere presente la ricchezza lessicale dei dialetti, o all’inglese senza considerare la plurisecolare influenza del francese dopo l’invasione normanna.
La lingua insomma non è un semplice strumento, di cui misurare la maggiore o minore affidabilità e adeguatezza come se fosse un’automobile o un paio di pantaloni, ma un mezzo che condiziona anche il messaggio. Una lingua è anche una cultura e una tradizione, e dunque uno scrittore (in) italiano dovrà fare i conti – magari senza rendersene conto – con gli autori che sono venuti prima di lui, con quanto ha studiato a scuola, con quanto ha trovato e letto in casa.
Alla lingua come primo carattere distintivo si aggiunge quindi, senza soluzione di continuità, anche la cultura che quella lingua si porta dietro. Cultura che è prima di tutto scolastica. Bisognerà notare che oggi c’è una tendenza a far sparire le proprie origini, come se ci fosse da vergognarsene. Ma la coscienza del luogo da cui si proviene non è per forza provincialismo (che invece è la convinzione che tutto quanto venga da fuori sia meglio o, per converso, l’atteggiamento difensivo secondo cui il proprio giardino sia il centro del mondo e l’origine occulta di tutto quanto c’è di buono sulla Terra: i due aspetti, paradossalmente, si presentano spesso insieme). Influenzati dal timore di apparire provinciali, sentirsi cittadini del mondo è oggi la posa più diffusa, e le affascinanti e arricchenti esperienze di vita all’estero – opportunità straordinarie che ci dà il mondo contemporaneo – diventano la giustificazione per scombiccherati discorsi sull’essere, ad esempio, in primo luogo “europeo” invece che italiano o polacco o danese.
Per quanto si sbandieri il proprio cosmopolitismo, resta il fatto che chi ha fatto la scuola dell’obbligo in Italia conoscerà sempre e comunque, anche senza volerlo, qualche nome che non dirà molto al coetaneo svedese o portoghese (e viceversa, ovviamente). Basta nominarli per suonare immediatamente vecchi tromboni eppure, mi dispiace, Dante o Manzoni avranno sempre – almeno finché fanno parte del curriculum scolastico – un ruolo nella formazione di una ragazza o di un ragazzo delle nostre parti. Tanto più se quella ragazza o quel ragazzo si mettono poi a scrivere e se lo fanno con qualche consapevolezza. Magari rifiuteranno o ignoreranno i nomi da vecchi tromboni: ma pure avranno dovuto studiarli per un’interrogazione, invece di aver studiato Luís de Camões o Calderón de la Barca.
Certo non voglio dire che la cultura comune sia assolutamente omogenea o monolitica. I tempi in cui la cultura era il patrimonio di una minuscola minoranza, che per di più considerava importante far parte di uno stesso discorso collettivo – motivo per cui, ad esempio, i personaggi di Tolstoj parlano tra loro con sincero interesse dello scrittore e del filosofo del momento – sono finiti e non torneranno. La cultura di oggi è più dispersa e più globale, sicuro: ma nonostante la dispersione, nonostante il rumore di fondo, nonostante qualcuno preferisca non pensarci, aver fatto il liceo a Milano continua a garantire un patrimonio di nozioni assai diverse dall’esperienza di farlo a Berlino.
Cultura scolastica e lingua comune, dunque, sono già due elementi che propendono per l’esistenza di quello che, con espressione terribilmente fané, chiameremo il carattere nazionale di una letteratura. C’è di più, anche se a questo punto le cose si complicano e devo raccontarvi come sono arrivato a riflettere su queste cose. Ogni anno la BBC organizza le Reith Lectures (così chiamate in onore del fondatore dell’emittente John Reith), una serie di conferenze in cui un esperto è invitato a tenere un breve ciclo di lezioni su un grande tema di attualità (quest’anno ad esempio si parlava di intelligenza artificiale). In passato i relatori sono stati scienziati e intellettuali di fama globale come Stephen Hawkins e Robert Oppenheimer, Niall Ferguson e Edward Said, ma anche il conduttore e pianista Daniel Barenboim, Aung San Suu Kyi, l’ex direttrice dei servizi segreti britannici, banchieri centrali, giudici…
Siccome tutte le puntate sono disponibili online e in queste cose sono metodico fino all’ossessività, una volta ascoltati gli episodi più recenti su suggerimento di un’amica sono andato indietro nell’archivio e ho cominciato a sentire le primissime uscite, con l’idea bislacca che un giorno riuscirò a sentirle tutte (visto il ritmo a cui procedo, conto di finire nei prossimi trent’anni). Così mi sono imbattuto nella Reith Lecture del 1955, affidata allo storico dell’arte inglese (ma di origine tedesca) Nikolaus Pevsner. La prima lezione si intitola The Geography of Art e l’autore ne presenta il tema così:
invece di indagare che cosa abbiano in comune le opere d’arte (e naturalmente di architettura) in quanto appartenenti a un certo periodo di una civiltà, senza badare al Paese, intendo porre qui la questione di che cosa abbiano in comune le opere d’arte (e naturalmente di architettura) di un popolo, senza badare al momento storico in cui sono state prodotte. Ciò significa che il mio tema è davvero il carattere nazionale come espresso tramite l’arte.
Domanda semplice ma, ne converrete, oggi piuttosto fuori moda, per i motivi che abbiamo elencato sopra. Quando ho sentito la conferenza la prima volta ho avuto un momento di illuminazione, come se mi fosse stata mostrata un’ovvietà per lungo tempo rimossa. Anche nel 1955 esplorare il tema non era scontato, ad ogni modo, e lo stesso Pevsner si chiedeva se avesse senso farlo. La sua risposta era ovviamente positiva ed è notevole uno dei primi esempi che viene portato a sostegno. È un esempio linguistico: lo studioso dice costoletta di montone, in italiano, e nota che l’espressione «in inglese suona come il verso di una poesia». Questa la conclusione che ne trae: «Suggerisco che finché una nazione dirà mutton chop e un’altra costoletta di montone – conclude – esisteranno caratteri nazionali». Affascinante, perché pur nella sua brevità l’esempio comunica anche quanto faccia parte della cultura nordeuropea – del suo carattere, appunto – una certa ammirazione stupita per la musicalità della nostra lingua, che ammanta di un’aura nobile anche le cose più quotidiane (in questo caso un piatto di cui ignoravo l’esistenza, ma che non promette benissimo).
Pevsner prosegue quindi individuando alcune caratteristiche dell’arte e dell’architettura inglesi, che qui non ricorderemo perché ci porterebbero troppo lontano. Torniamo, piuttosto, a Thomas Bernhard. Leggendolo a breve distanza da un altro grande autore tedesco, W.G. Sebald, mi era sembrato di ritrovare un certo tono comune, sulle prime difficile da definire. Mi appariva certo, in particolare, che l’altra grande letteratura in cui posso dire di muovermi con un minimo di confidenza, quella statunitense, non avrebbe mai potuto produrre qualcosa del genere.
C’è in Bernhard e in Sebald, per cominciare, la malinconia e il sentore di un mondo al tramonto del tutto sconosciuta alla letteratura di un Paese, gli Stati Uniti, da decenni al centro della scena mondiale, potenza egemone globale tanto economica e militare quanto culturale. Anche se oggi il primato attraversa forse una crisi e i commentatori abbiano già dichiarato sei o sette volte la fine del secolo americano, si tratta per ora soprattutto di un rituale scaramantico, che non si riflette davvero nella letteratura se non a livello superficiale. Mentre la perdita di centralità e il faticoso invecchiamento, anche anagrafico, dell’Europa è ormai un dato acquisito da parecchi decenni. C’è poi nei due scrittori tedeschi una qualità dell’espressione lenta, rigorosa, fatta di periodi lunghi e avvolgenti, che è influenzata dalle caratteristiche peculiari della lingua tedesca e che non c’entra nulla con la letteratura americana dell’ultimo secolo. Quest’ultima, da parecchi decenni – mi verrebbe da dire da Faulkner in avanti – ha accantonato ogni interesse alla vera sperimentazione linguistica, per cui la difficoltà espressiva di un autore si gioca tutta sulla sua scelta del lessico e poco di più (per cui Franzen o Foster Wallace potrebbero essere considerati “difficili”, in confronto agli altri, mentre in confronto a un tedesco sono praticamente libri a fumetti).
C’è infine in Sebald e in Bernhard un atteggiamento riflessivo e meditativo sulla vita, a tratti prossimo alla filosofia (lo stesso che si ritrova in Mann o in Broch), più o meno lontano riflesso dell’importanza di quella disciplina nella cultura tedesca. Insomma, Sebald e Bernhard hanno alcune cose che li accomunano e che li rendono profondamente tedeschi; per converso, Philip Roth e Cormac McCarthy (e Stephen King e Raymond Carver e J.D. Salinger) hanno altre caratteristiche – dalla chiarezza, per non dire semplicità, espressiva all’immaginario quotidiano e all’importanza della trama, solo per fare qualche esempio – che li rendono altrettanto profondamente americani. E non è un caso che, nonostante Thomas Mann abbia vissuto i suoi ultimi anni in California, ciò ha influenzato così poco la sua scrittura che è come se fosse rimasto a Lubecca o a Monaco di Baviera.
Per tutto quanto abbiamo ricordato finora credo insomma che abbia senso rivendicare l’esistenza di un carattere nazionale della letteratura. Questa operazione pone più domande, in realtà, di quante non ne risolva. Quali sono dunque i caratteri nazionali italiani in letteratura? E qual è l’effetto delle letterature del centro – diciamo francamente, di quella statunitense – sulla periferia europea o sudamericana? Non tocco neppure il mondo asiatico o africano, di cui non so nulla, ma è interessante notare che gli autori più celebri provenienti dall’Africa (penso ad esempio a Chinua Achebe) scrivano in larga parte del rapporto con la cultura dell’Occidente. E ancora: quanto è importante marcare queste differenze, se il mercato librario è per tanti aspetti globale e il poco discorso culturale che c’è sembra ignorarle, occupandosi indifferentemente di americani o di irlandesi, di polacchi o francesi a seconda del successo del momento? Non sarà che, negli ultimi anni, c’è stata una convergenza delle arti a livello globale, e dunque stare a far tante differenze tra un autore di Málaga e uno di Winnipeg è una perdita di tempo, e lo sarà ancor di più in prospettiva? Infine: è possibile usare l’aggettivo nazionale parlando di arte e letteratura senza portarsi appresso il suo antipatico compagno politico, il nazionalismo?
A parecchie di queste domande non ho molte risposte, ma solo qualche idea incerta e bisognosa di approfondimento. Bisognerà tornarci. Già sospetto di aver battuto il record di lunghezza con questa puntata e dunque per oggi non mi spingo oltre.
Commenti? Idee? Suggerimenti? Puoi scrivermi rispondendo a questa email.
Post scriptum (sulla BBC). È un luogo comune, per noi che la guardiamo da una certa distanza, considerare la BBC il caso paradigmatico di emittente pubblica di qualità e indipendente. Nelle ultime settimane, complice il centenario dell’emittente che ricorre quest’anno, mi sono imbattuto in alcuni begli articoli che dimostrano come, tanto per cambiare, le cose siano più complicate di così. In particolare, la sua imparzialità non è un dato pacifico o acquisito nel discorso pubblico britannico: la BBC è stata spesso accusata di parteggiare per l’una o per l’altra parte politica (di solito per la sinistra) e i governi, soprattutto conservatori, hanno ciclicamente preso provvedimenti (o minacciato di farlo) per correggere vere o presunte storture. Oltre a ciò, nel suo primo secolo di storia la BBC è scesa spesso a compromessi con il potere politico, con cui mantiene, appunto, un rapporto complicato. Tutto questo non impedisce all’emittente britannica di avere un livello di diffusione nel Regno Unito e un apprezzamento da parte del suo pubblico primario che altre emittenti nazionali si sognano, ovviamente, e che fuori dal Regno Unito forse non è neppure così noto. I due articoli, in inglese, sono questo sul New Yorker e quest’altro sulla London Review of Books.