La scorsa settimana ho parlato degli scrittori monotoni. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, condividilo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
Qualche giorno fa il New Yorker ha pubblicato un’intervista con Werner Herzog, il grande regista che, autore di capolavori come Aguirre e Fitzcarraldo negli anni Settanta e Ottanta, gode di nuova fama oggi, ai tempi dello streaming, con i suoi molti documentari in cui racconta storie e situazioni estreme come i vulcani o i cacciatori siberiani nel suo inglese con pesante accento tedesco.
Herzog ha fama di essere un tipo originale: celebre l’aneddoto, probabilmente spurio, secondo cui avrebbe puntato una pistola alla testa di Klaus Kinski – un altro matto vero e non di rado pure violento – durante le riprese di Aguirre per costringerlo a continuare a recitare. L’intervista non contiene storie altrettanto adrenaliniche, ma di certo non deluderà gli amanti del personaggio. Il regista, infatti, presenta ancora una volta la sua vita notoriamente straordinaria, fatta di rivelazioni istantanee, assurdità poetiche, immagini folgoranti. Poche righe, e Herzog sta già raccontando di quando, da ragazzo, ebbe la seguente esperienza:
All’età di diciassette anni, per esempio, mi imbattei in una valle coperta di diecimila mulini a vento sull’isola di Creta. Avevo noleggiato un asino e stavo viaggiando nelle montagne dell’interno. Quando vidi questa valle di mulini a vento pensai: Non può essere vero – sono ingannato da un’illusione oppure completamente impazzito.
La valle cretese dei mulini a vento, ho scoperto, esiste davvero ed è la piana di Lasithi. I mulini sono in realtà circa cinquemila, anche se pare siano stati anche il doppio in passato. Quella menzione di “diecimila” non può essere una semplice coincidenza: Herzog deve aver letto qualcosa sulla piana di Lasithi, magari dopo esserci capitato per caso da ragazzo, magari invece più di recente, ma al suo intervistatore – sessant’anni dopo – presenta la storia facendo bene attenzione a non precisare troppi dettagli, come ad esempio il nome della valle. Il lettore rimane con l’impressione di una scoperta fiabesca, di un luogo sospeso fra realtà e immaginazione.
Poco oltre, Herzog parla di Hiroo Onoda, il famoso “ultimo giapponese”, che rimase nascosto per trent’anni nella giungla delle Filippine senza volersi convincere della fine della Seconda guerra mondiale, unico sopravvissuto in una sorta di guerra personale. Le circostanze dell’incontro con il regista, come raccontato da Herzog, sono altrettanto straordinarie della storia di Onoda. Nascono, a sentir lui, da una sua intuizione momentanea dopo aver rifiutato un incontro assai più istituzionale (non vi rovino la sorpresa, per chi volesse leggersi l’intervista). Ecco come la racconta Herzog:
Qualcuno allora mi chiese chi altro avrei voluto incontrare in Giappone e, del tutto fuori dal nulla, dissi “Onoda”. Per molti anni aveva rifiutato di partecipare in un film sulla sua vita. Ma disse: “Se c’è qualcuno che dovrebbe farlo è lei, Herzog-san”. Ne fui molto emozionato e, per un po’, pensavo che la sua storia sarebbe potuta diventare un film.
Come nel caso dei mulini a vento, anche qui si sente il tocco del consumato narratore (Herzog ha già raccontato questa storia altre volte): il regista dice di aver fatto il nome di Onoda quasi per caso, trovandosi in Giappone per altri motivi alla fine degli anni Novanta, e subito dopo aggiunge che lo stesso Onoda lo considerava l’unico in grado di rendere al cinema la sua storia incredibile.
Si ottiene l’effetto di suggerire, senza dirlo esplicitamente, che le due cose siano accadute l’una dopo l’altra, nel corso del loro primo incontro. Assai implausibile: se di certo Onoda può aver avuto stima di Herzog dopo averlo frequentato per un po’, è molto difficile che nel 1997 o 1998, ultrasettantenne e con la vita che aveva vissuto, l’ex militare giapponese fosse un gran conoscitore del cinema europeo e avesse per Herzog la stessa fissazione che con ogni evidenza Herzog aveva per lui. Ma d’altra parte Herzog parla sempre in termini di destino, di rivelazioni istantanee: quando vide per la prima volta da ragazzo Klaus Kinski, come ha raccontato un’altra volta, «Ho capito in quel momento che il mio destino era di girare film e il suo [di Kinski] di recitarci».
E poi c’è il momento di Turgenev. Herzog cita spesso poeti e narratori, avendo lui stesso pubblicato diversi libri e considerandosi senz’altro anche uno scrittore. Nell’intervista riporta la seguente storia:
Credo ancora che la letteratura abbia un’importanza molto profonda non solo per le nostre singole esistenze ma per la nostra esperienza collettiva. Negli anni Settanta, mentre facevo un brindisi, citai qualche frase di Turgenev, e il mio ospite rispose continuando la storia di Turgenev e recitando a memoria le cinque pagine successive. Attraverso il linguaggio si stabilisce una comunanza di anime. Mi manca.
Come i “diecimila mulini”, la forza dell’aneddoto qui sta nelle “cinque pagine”: che è anche il dettaglio che rende il tutto assai poco plausibile. Imparare a memoria cinque pagine in prosa è uno sforzo che non farebbe nessuno se non un attore che deve recitare un lunghissimo monologo; declamarle richiede circa dieci o quindici minuti, un’interruzione scarsamente plausibile durante un brindisi conviviale, a meno di non essere in un manicomio. La possibilità che l’ospite di Herzog avesse passato ore a memorizzare esattamente il brano citato per caso dal regista, e che abbia effettivamente interrotto la cena per dieci minuti di recitazione ad alta voce, è così bassa da rendere la storia sospetta almeno quanto la passione di un anziano ex soldato giapponese per Fitzcarraldo. Onoda, Turgenev, i mulini a vento: Herzog racconta con grande talento, non diremo con grande furbizia, tante storie che servono a costruire il proprio mito.
Viene da invidiare chi vive come Herzog, ammesso che la sua postura sia del tutto genuina. Chi cioè si muove nella realtà, che è in prosa, come se fosse invece una poesia, tutta intessuta di segni premonitori, simboli, intuizioni momentanee che guidano una vita intera. La vita quotidiana per molti è un faticoso avanzare tra scadenze, fatica, incombenze del momento; per Herzog e quelli come lui, invece, una successione di rivelazioni e incontri straordinari.
In un celebre brano F.S. Fitzgerald parla di careless people, persone che, chiuse nel loro egoismo, non si curano dei danni che fanno agli altri: Herzog è un rappresentante della effortless people, i fortunati che sembrano non essere toccati dalle preoccupazioni quotidiane. Ma soprattutto è un infaticabile narratore di sé stesso, un artista che, dalla sua lunga e certo non ordinaria vita, seleziona i dettagli che brillano come diamanti nella tessitura prosaica della quotidianità, li reimpacchetta con i giusti effetti di scena e li presenta come scintillanti epifanie agli ascoltatori.
In fondo, chi non fa lo stesso? Tutti, nel raccontare a noi stessi o agli altri la nostra vita e le nostre esperienze scegliamo quanto più si adegua all’idea che abbiamo di noi, al personaggio che ci siamo costruiti e che crediamo di rappresentare, e creiamo i nostri momenti di svolta, i nostri incontri che ci hanno cambiato la vita, i nostri bivi esistenziali decisivi. Mentiamo tutti, come mente Herzog, quando inventiamo la nostra storia. Siamo tutti i protagonisti del nostro romanzo.
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Sono d'accordo. Precisiamo che il regista vive in un'altra dimensione, a mio avviso. Quella dei Geni.