La scorsa settimana ho parlato di come tutto sia già stato detto. Un benvenuto a nuove iscritte e nuovi iscritti: qui trovate una presentazione mia e dei temi di cui parlo. Se quello che leggi qui sotto ti piace, inoltralo a qualcuno che potrebbe apprezzare. Se non sei ancora iscritto/a, puoi ricevere questa newsletter nella tua casella di posta, ogni sabato mattina, cliccando qui.
La scorsa settimana parlavamo della sensazione che tutto sia già stato scritto, tipica del nostro tempo. È una sorta di affaticamento, a cui deve contribuire senza dubbio il diluvio di stimoli a cui siamo sottoposti oggi. Siamo in un’epoca di straordinaria abbondanza, tanto nei beni materiali quanto nei prodotti culturali: i tre o quattro abbonamenti a servizi di streaming video a cui ho accesso mi permetterebbero di passare settimane a guardare capolavori del cinema; con Spotify ho accesso a un catalogo se non completo di fatto inesauribile della musica del mondo; più o meno tutti i libri che posso desiderare sono a mia disposizione tramite Internet.
Davanti a questa abbondanza si rischia di restare schiacciati. Chi vuole scrivere qualcosa si dirà: ma se c’è già tutta quella roba in giro, che senso ha aggiungere a questa montagna? E certamente quanto farò io sarà già stato scritto da qualche parte.
Diversi lettori mi hanno risposto che ansie simili sono poco giustificate: si scrive per sé stessi, perché se ne sente la necessità. Sarà: ma io di questo fatto non sono molto convinto. Che la creazione artistica risponda a un bisogno personale, a un’urgenza, a una sorta di vocazione irrinunciabile è una visione romantica della letteratura, secondo cui chi scrive (o suona o dipinge o quello che volete) lo fa perché vi è in qualche senso costretto da una spinta interiore che non è possibile ignorare. Dunque non è importante che cosa sta là fuori nel mondo, le reazioni del pubblico, e neppure che un pubblico ci sia: l’arte è questione di necessità personale, un obbligo a cui bisogna assolvere ad ogni costo.
Idea certo rispettabile e quasi un luogo comune, ma assai poco realistica. Lascia infatti da parte, per prima cosa, la notevole parte di mestiere che esiste in tutte le cose umane, incluse quelle artistiche. Ci vuole allenamento e un sacco di fatica per dipingere quadri passabili, così come ci vogliono ore e ore di pratica per imparare a suonare uno strumento e una voluminosa quantità di pagine buttate per riuscire a scrivere un racconto decente. Tutti siamo stati diciottenni a cui urgeva buttare sulla carta una poesia, ma il risultato faceva quasi certamente schifo. Dedicarsi all’arte sarà una scelta con la propria origine, forse, in una spinta interiore, ma la similitudine migliore qui è con la scelta dell’università. Fare arte sarà una decisione di cui magari si può rintracciare anche il giorno e l’ora, ma pensare che tutta la carriera sia poi sostenuta da una sorta di furore mistico e creatore è un po’ come pensare che, scegliendo di studiare diritto o medicina, ogni pagina dei manuali che dovremo mandare a memoria sarà infusa di beata soddisfazione. Come sa chiunque è arrivato in fondo a un percorso di studi, gran parte dei giorni spesi per arrivare all’obbiettivo sono noia, lacrime e sangue.
Insomma, non esiste arte senza fatica e, se ci si dedica ad essa soltanto nei momenti in cui lo si vuole fare o se ne avverte l’urgenza, i risultati saranno purtroppo sempre nel campionato delle poesie dei diciottenni. Giusto quindi dedicarsi a quanto piace fare, ovvio; necessario però riconoscere che l’arte è anche un mestiere e i risultati arrivano dopo parecchio tempo che si è cominciato.
Avere un pubblico quindi è fondamentale: se tutta quella fatica non viene apprezzata e riconosciuta da qualcuno, che senso ha proseguire? Insistere per decenni a creare cose di cui non fruisce nessuno – e non parlo qui di svaghi a cui si dedica mezz’ora al mese, perché in quel caso si tratta di semplici passatempi – è da pazzi, non da artisti. Questi ultimi infatti cercheranno sempre un pubblico per le cose che fanno (e semmai si ritireranno turbati dopo averlo ottenuto, alla Salinger). L’arte è sempre un’impresa collettiva.
Anticipo l’obiezione di grandi artisti che non hanno ottenuto riconoscimento in vita (il famoso rifiuto del Gattopardo da parte di Einaudi). Ciò non significa che molte grandi opere d’arte siano nate in segreto: si tratta in quasi tutti i casi di persone comunque ben inserite nel circuito dell’arte e della critica del loro tempo, che non hanno trovato subito la fortuna che meritavano, non di totali outsider rimasti chiusi nella propria cameretta senza pensare di dare a qualcuno i frutti della propria fatica.
Si dirà che c’è un errore logico nel mio ragionamento, perché se romanzi straordinari sono stati scritti e rimasti nei cassetti, non lo sapremo mai: in altre parole, che è sbagliato concludere dell’assenza di grande arte prodotta soltanto da e per l’artista, perché quel tipo di cose è fatto proprio per restare segreto.
Di nuovo qui si ignora, mi pare, che nessuno fa nulla da solo, in nessun aspetto delle cose umane, e neppure in quello dell’arte. Per imparare bisogna avere insegnanti, per migliorare c’è bisogno di commenti, per far emergere il talento c’è bisogno che qualcuno lo riconosca. Scrivere è senz’altro un’operazione personale e, in un certo senso, intima: ma diventare scrittori è un percorso che ha bisogno di altri. Chi non ha mai sottoposto il proprio lavoro a qualcuno che lo sapesse giudicare, e potesse suggerire o ispirare miglioramenti, non è andato molto in là in quel percorso. I capolavori nel cassetto purtroppo non esistono.
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